Intervento di una sopravvissuta alla prostituzione alla Conferenza
promossa dall' Aboriginal Women’s Action Network, dal titolo «One is Too Many», Vancouver
(C.-B.) Coast Salish Territories, 26 marzo 2009.
Buongiorno,
sono una discendente dei Kwakwakeuk e
dei Coast Salish. Voglio ringraziare il popolo Coast Salish perché ci permette
di essere qui, sui loro territori non ceduti. Discendo da generazioni di avi
oppressi dai governi e dalle chiese. I miei genitori e i miei nonni sono tutti
il prodotto delle scuole residenziali indiane. Io stessa ho subito il
prolungamento del programma governativo di distruzione dell'unità del nostro
popolo. Sono stata vittima di quello che oggi viene definito il rapimento di bambini aborigeni
degli anni Sessanta e sono stata collocata presso famiglie affidatarie violente
ed abusanti.
Qui, sulle nostre terre ancestrali,
abbiamo visto perpetrare la violenza
fisica e sessuale in modo sistematico e abbiamo subito incesti e molestie dai
padri, dagli zii, dai genitori affidatari.
Questa violenza sessuale ci ha addestrato a quella futura. A 14 anni ho
iniziato a fuggire da queste famiglie affidatarie. Sono arrivata a Vancouver a
15 anni e ho trovato mia mamma in un piccolo albergo fatiscente: il Sunrise
Hotel. La sua forza era stata spezzata nella scuola residenziale che era stato
il luogo di addestramento a ciò che l'avrebbe attesa nel futuro: uomini
violenti e prostituzione. Mia madre ha pianto fino al giorno della sua morte. A
15 anni ho formato una famiglia nel quartiere più povero di Vancouver con altre
persone come me, una famiglia da me creata o che è stata creata per me.
Mi sentivo un peso per la mamma che fruiva di
un modesto assegno sociale. Sapevo che non era in grado di sopportare questo
onere. Non avevo molte possibilità di scelta.
Così, quando ho incontrato quello che sarebbe
diventato il mio ragazzo e il mio magnaccia, sono stata subito disposta a fare
quel che ho fatto per sopravvivere. Sono stata preparata, addestrata,
incoraggiata a prostituirmi dalle sue "belle" parole: "Lo fanno
tutte!" e dalle sue promesse:
"Non ti amerò di meno". Ricordo di aver iniziato a prostituirmi molto
giovane; ero ancora una bambina... e di aver pianto parecchio prima di
addormentarmi...piena di vergogna e di rimorsi. Ho iniziato a consumare droghe ed alcool per reprimere
questi pensieri ed emozioni. In quel periodo della mia vita, ho pensato che
questo fosse il mio destino e che non sarei mai riuscita a trovare niente di
meglio. Il mio magnaccia confermava le mie convinzioni: "Nessuno vorrà più
saperne di te". Mi sono così adattata ad una situazione difficile, che
consisteva nel fatto che la mia vita era un incubo e che l'incubo sarebbe
continuato qui in città.
Durante il periodo che ho trascorso in strada
sono stata aggredita con coltelli e pistole, fisicamente e sessualmente, tante
di quelle volte da non poterle contare
neppure se lo volessi. Molte volte mi sono trovata con gli occhi pesti e senza
sapere a chi rivolgermi. Sono stata aiutata da alcune organizzazioni che mi
hanno dato dei preservativi, moduli di denuncia degli aggressori e false
speranze. Ho raccontato la mai storia all'organizzazione Alliance for the
Safety of Prostitutes e ho partecipato a una sua campagna. Ho indossato
t-shirts che recavano la scritta: " A blow-job is better than no job " (Un pompino è meglio della disoccupazione). Mi hanno dato
preservativi per proteggermi dalle malattie e dalle gravidanze, ma non mi hanno
offerto alternative. Non mi hanno offerto mezzi per uscirne. Tutto ciò mi ha
confermato nell'idea che questo fosse il mio "destino".
Non erano disponibili né alloggi, né corsi di
formazione, né altre occupazioni.
Mi ricordo di aver sentito parlare di donne
che erano sparite o erano state trovate morte mentre "stavano
lavorando" in strada. "Stavano
lavorando": non mi piace usare questo verbo nella stessa frase in cui
compare la parola "prostituzione". Non era un lavoro. Non c'erano
vantaggi. Non mi sono stati pagati gli
elevati rischi corsi e i danni subiti, perché non era un lavoro: gli uomini
pagavano per stuprarmi. Se non mi fossi imposta la regola di non uscire dalla
città con un cliente, sarei morta anch'io. Sono stata avvicinata da uomini che
volevano condurmi fuori dalla città.
Le mie amiche non hanno avuto l'opportunità
di raccontare la loro storia, perché sono state trovate morte in luoghi come la
fattoria di Pickton. Le piango. Ho anche contribuito a decorare un totem
in memoria di quelle che sono scomparse o che sono state trovate morte. Altre
nostre sorelle spariscono ancora ogni giorno.
Nel corso dell'ultimo anno, ho appreso che
due delle nostre ragazze si sono suicidate piuttosto di continuare ad essere
pagate per essere stuprate. Si sono lanciate dal balcone per sfuggire alla
violenza della prostituzione. Queste giovani hanno vissuto in luoghi come la
Beach Avenue e hanno lavorato per
agenzie di escort di lusso sedicenti
sicure. E' triste quando il suicidio
sembra essere l'unica opzione rimasta, ma ciò accade di continuo.
Quello che sappiamo è che donne e bambine aborigene
subiscono danni nel momento stesso in cui ne parliamo. Donne e ragazze
ricorrono ad alcool e droghe per resistere.
Quando mia madre è morta a 38 anni, io ne
avevo 22. Questo evento ha segnato un
punto di svolta nella mia vita. Non avevo più motivo di restare nel quartiere Downtown
Eastside.
Ho cercato di trovare aiuto presso i centri
di disintossicazione e di seguire il programma degli Alcolisti Anonimi. Non
c'erano servizi concepiti per aiutare le donne ad uscire dai marciapiedi. C'era
solo il modello della "riduzione del danno", dei preservativi e dei
moduli di denuncia degli aggressori. Abbiamo un sacco di problemi da affrontare
quando lasciamo il marciapiede. La vergogna, il disturbo da stress
post-traumatico, lo spaesamento, la mancanza di autostima. Non avevo istruzione ed esperienza per trovare un
lavoro e non avevo accesso ad un alloggio sicuro e a prezzi accessibili.
Quindi, quando dite di volerci offrire aiuto,
noi rispondiamo che "Vogliamo fare veri lavori, non pompini".
Alcuni sostengono di avere il sostegno degli Aborigeni per promuovere i
bordelli e la legalizzazione della prostituzione. Noi donne aborigene diciamo
di volere altro. Vogliamo lasciare questa realtà in eredità ai nostri figli e
ai nostri nipoti? Ho sentito dire che la prostituzione è il più vecchio
mestiere del mondo. Se fosse così, come mai gli Aborigeni non hanno nemmeno un
sostantivo nelle lingue tradizionali per indicare questa attività? Non fa parte
della nostra cultura, non è questo che voglio lasciare ai miei figli. La
prostituzione non è altro che violenza contro le donne, perché vorremmo
lasciarla in eredità ai nostri figli? Come nativi, pensiamo alla salute nei
termini propri della ruota della medicina, ossia come salute fisica, emotiva,
mentale e spirituale. La prostituzione colpisce tutti questi ambiti e ci
vogliono molti anni per guarire. Ancora dopo tanti anni, mi capita di piangere
e di vivere il lutto della bambina che ero e che ha perso l'innocenza.
L'anno scorso abitavo nel quartiere di Downtown
Eastside e ho visto una donna sulla cinquantina, una nonna sul marciapiede da
due anni a causa della soppressione del sussidio. La prostituzione non avrebbe
dovuto rappresentare la sua unica opzione di sopravvivenza. E' una vergogna che
un Paese ricco di terre e di risorse non sia in grado di offrire un reddito
annuo garantito ad una donna nativa.
Alloggi, un welfare migliore, maggiore
formazione professionale e accesso all'istruzione senza il rischio di vedersi
tagliate fuori dal welfare. Vogliamo più posti nei centri di disintossicazione
e reali alternative per le donne che sono ancora sui marciapiedi. Abbiamo
bisogno di programmi migliori di uscita dalla prostituzione, non di un bordello
affinché i bianchi milionari che verranno a vedere le Olimpiadi del 2010 possano
stuprare le donne più facilmente.
Vergognatevi se immaginate che noi, donne
aborigene, difenderemo e promuoveremo gli interessi della lobby favorevole ai
magnaccia.
Uso la mia esperienza per farvi comprendere
cos'è accaduto e cosa continua ad accadere alle nostre donne e ai nostri
bambini aborigeni. Voglio essere una voce per quelle che non possono parlare a
causa delle circostanze in cui si trovano.
Quando avevo 14 anni e fuggivo da famiglie
affidatarie dove si abusava sessualmente di me, cercavo mia madre. Cercavo
sicurezza, protezione ed amore.
Quando finalmente ho trovato aiuto, è stato
da donne del movimento femminista. Mi hanno aiutato a nominare la violenza che
era stata commessa nei miei confronti. Credevano nella nozione radicale che io
fossi un essere umano degno di sicurezza, di rispetto, di dignità, meritevole
di avere una casa e un lavoro o una carriera.
Vivo ancora con i dolorosi ricordi del mio
passato, ma non mi vergogno di me. Oggi sono una femminista autoctona fiera di
esserlo. E sono orgogliosa di stare con le mie sorelle che si oppongono alla
violenza sulle donne e sui bambini e che esigono che veniamo trattate con
rispetto e dignità nelle nostre terre ancestrali.
Non lottiamo soltanto per i diritti delle
nostre donne e dei nostri bambini aborigeni, ma lottiamo per il diritto di tutte
le donne e di tutti i bambini a vivere liberi dalla violenza e dalla minaccia
di diventare prostitute o vittime della tratta. Lottiamo per i diritti di tutte
le donne e di tutti i bambini perché ciò che accade alle donne e ai bambini
aborigeni accade alle donne e ai bambini di tutto il mondo.
Voglio ringraziarvi di essere qui oggi, di
ascoltare le mie parole e di unirvi alla lotta per porre fine alla violenza
contro donne e bambini.
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